di GIULIA BELARDELLI
Bambini, capricci e scatti d’ira
la cosa migliore è non fare nulla
Gli sbalzi d’umore dei più piccoli sono improvvisi e spesso ci lasciano inermi. Un gruppo di ricerca americano ha provato a indagarne le componenti sonore. Dando un consiglio ai genitori
IL BAMBINO sta giocando, calmo e beato. A un certo punto qualcosa lo turba: è l’inizio dell’inferno. Pianti, urla e grida disperate. Calci, pugni e una disperazione che sembra inconsolabile. Gli scatti d’ira, o più comunemente i capricci, rappresentano agli occhi degli adulti il lato più imperscrutabile dei loro piccoli simili. Se per i genitori sono fonte di frustrazione e senso di inutilità, per alcuni possono arrivare a essere uno dei deterrenti alla riproduzione. Ecco allora che qualcuno ha pensato di tradurre in scienza i capricci, così da renderli un po’ meno spaventosi e darci l’illusione di poterli gestire. O quanto meno aspettare che passino con il cuore sereno, come si fa con un temporale e altri fenomeni naturali.
Nell’impresa si sono cimentati tre studiosi americani: James A. Green e Pamela G. Whitney, dell’Università del Connecticut, e Michael Potegal, neuropsicologo pediatrico presso l’Università del Minnesota. Dopo essersi sorbiti ore e ore di piagnistei, i ricercatori sono arrivati alla conclusione che le scenate dei bimbi, lungi dall’essere casuali, sono in realtà riconducibili a modelli e ritmi ben precisi e possono dunque essere considerate materia di scienza a tutti gli effetti. Bocciata la linea dell’interventismo: entro certi limiti, queste esplosioni di emozioni – perché di questo, in fondo, di tratta – devono essere lasciate libere di seguire il loro corso.
“Lo scopo della ricerca – ha spiegato Green 1, direttore del dipartimento di Psicologia della UConn – è quello di fornire a genitori e insegnanti degli strumenti più adeguati per rispondere a questi fenomeni, dando allo stesso tempo ai medici una chiave aggiuntiva per distinguere i capricci ordinari dai campanelli d’allarme di eventuali disturbi”.
La ricerca, pubblicata sulla rivista Emotion 2, prende infatti molto sul serio la questione capricci, concentrandosi in particolare sulla loro dimensione acustica. Lo si capisce fin dal titolo: “Urli, grida, lamenti e pianti: differenze categoriche e di intensità nelle espressioni vocali della rabbia e della tristezza negli scatti d’ira dei bambini”. Roba da analisi multivariata, insomma.
Gli studiosi hanno analizzato un corpus di circa 1.300 vocalizzi prodotti da bambini di età compresa tra i due e i tre anni, arrivando a formulare – ha spiegato Potegal – “la più completa teoria quantitativa del capriccio di cui l’umanità disponga”.
“Gli sbalzi d’umore dei bambini – ha precisato lo studioso – ci offrono una finestra unica per indagare l’espressione e la regolazione delle emozioni forti. Mentre gli studi sugli adulti si servono di solito del contributo di attori o sono comunque condotti in contesti fittizi, quelli sugli infanti colgono la radice più profonda delle nostre emozioni e del nostro modo di reagire”.
La prima sfida alla costruzione di una teoria del capriccio è stata di tipo tecnico: come raccoglierne, infatti, le varie manifestazioni sonore senza ricorrere all’intermediazione degli adulti, scienziati o genitori che siano? Potegal e colleghi hanno concepito una soluzione piuttosto elegante, cucendo ad apposite tutine una tasca contenente un microfono wireless di alta qualità.
Hanno poi collegato il microfono a un registratore: i genitori che hanno partecipato all’esperimento dovevano semplicemente attivare il microfono e comportarsi come al solito; una volta finita l’eventuale crisi di pianto, il loro compito era quello di spegnere il microfono e consegnare la registrazione agli scienziati.
Una volta giunte in laboratorio, le registrazioni sono state esaminate nei minimi dettagli. I risultati hanno convinto gli studiosi a rifiutare il modello “a due fasi” del capriccio, ossia quello finora più accreditato. “In base a studi passati, che però dipendevano fortemente dai racconti dei genitori, il capriccio era stato descritto come un fenomeno lineare caratterizzato dal susseguirsi di due emozioni: rabbia e tristezza“, ha spiegato Green.
Si pensava che la tristezza, più facile da gestire perché in qualche modo consolabile, subentrasse soltanto dopo il picco di rabbia. “In realtà, abbiamo scoperto che queste due emozioni si intrecciano in un modo molto più profondo”, ha aggiunto il neuropsicologo. “La rabbia si lega all’angoscia (in inglese distress), un misto di tristezza e ricerca di conforto. La rabbia e il distress sono in realtà più o meno simultanei: i suoni legati a questo secondo tipo di emozione si estendono infatti a tutto il capriccio, anche se in alcuni momenti sono offuscati dai picchi più alti fatti di grida e strilli”.
Il modello che ne deriva è abbastanza complicato: a costituirlo sono cinque categorie percettive di vocalizzi, ognuna analizzata secondo undici parametri acustici. Il succo, però, è abbastanza semplice, una volta determinata la scala dell’intensità del capriccio e della sua melodia: al primo posto ci sono le urla, seguite da grida, pianti, lamenti e mugolii. Gli ultimi tre vocalizzi (quelli più “melodici”) sono tipici del distress, mentre i primi due danno sfogo alla rabbia più nera. Lo scopo del genitore – va da sé – è uscire quanto prima da questa fase e fare in modo che il bambino torni “gestibile” e “consolabile”.
“Il trucco per far finire un capriccio il prima possibile – ha commentato Potegal – è far sì che il bimbo superi il picco di rabbia. Una volta passato il peggio, il bambino rimane in uno stato di tristezza ed è quindi più disposto a essere consolato”. Il modo più veloce per agevolare questa transizione è semplicemente non fare nulla. Altrimenti si rischia di cadere nella cosiddetta “trappola della rabbia”, nella quale anche solo il fatto di porre domande al bambino può tradursi in un prolungamento del supplizio.
“Quando i bambini sono nel pieno dello scoppio d’ira fargli domande è forse il comportamento più sbagliato”, ha concluso lo studioso. “A quell’età è difficile processare le informazioni. E il fatto di dover rispondere a una domanda del genitore verosimilmente non fa altro che aggiungere più informazioni a un quadro che davvero li sta mettendo in difficoltà”.
Meglio quindi aspettare e prendere i capricci e i pianti, anche quelli più disperati, per quello che sono: un fenomeno naturale. Qualcosa che, se osservato con occhio scientifico, può essere in grado di dirci molte cose sul nostro modo di dare un suono alle emozioni più estreme.